SUL LEVARE
€ 14.00
DETTAGLI PRODOTTO
- Disponibile
- 978-88-85464-48-3.
- POESIA.
- Sergio Gandini
- 154
Formato: 14 x 22 – Brossura Fresata
I poeti:
Gli ultimi custodi
delle solitudini
(Celan – Microliti)
Dall’età di dodici anni ho sempre scritto poesie, alternando periodi di maggiore o minore creatività. Difficile contare il numero delle poesie che ho scritto.
Scrivere credo che sia, per me come per altri, un bisogno fisico quanto il camminare. Alcune poesie si sono perdute, altre restano a testimoniare il vissuto da cui si sono originate, solo su alcune continuo a lavorare. Molti parlano oggi di ricerca di essenzialità, anche in poesia: eppure nelle poesie finisce di tutto, e specialmente la caparbia notazione di emozioni e stati soggettivi – come già lamentavano Benn o Celan – un io che sempre di più invade i confini della parola, fino alla sazietà.
Per questo e per altri motivi ancora, sono persuaso che scrivere poesie sia soprattutto un levare: sempre più sovente procedo proprio così, senza prestare eccessiva cura alla prima stesura di una poesia, ma poi ritornando e limando ciò che non è necessario, non per una ricerca di perfezione formale, ma per il bisogno di un dire essenziale. Il dire essenziale implica lasciare che l’aria, il vuoto circoli all’interno delle parole scritte – pause, spazi lasciati a margine – non solo nel testo scritto, ma soprattutto nella mente del lettore di poesia.
Che deve mantenersi attento più che al detto, alla molteplicità dei sensi suggeriti dal testo poetico, e a quello che avviene dentro al Silenzio.

Sergio Gandini
Sergio Gandini, laureato in filosofia all'Università Statale di Milano, coltiva l'interesse e la pratica della pittura a partire del 1971: ha avuto come amici e maestri Antonio Arosio, Pietro Gentili e Luigi Stradella. Come sovente ama sottolineare un amico, la fotografia è un fare che si apprende essenzialmente “guardando” le opere di coloro che ci hanno preceduti; così è anche per la pittura; circostanza ancora più felice è se la conoscenza delle opere nasce da un autentico sodalizio, da consuetudini amicali. Ha tenuto la prima personale a Milano nel 1988; nel 1999 ha ricevuto il premio al concorso “Emilio Gola”
Ha esposto in collettive e personali, in Italia, a Milano, Monza, Lecco, Merate, Sirtori, Arcore, Vittorio Veneto, Ferrara, Roma, Venezia, Senigallia, Piacenza, Reggio Emilia, L'Aquila, Palermo e all'estero, a Cadiz, Sofia, Budapest, Mendrisio, Bucarest, Parigi, Madrid, Berlino, Londra.
Come poeta ha ricevuto il premio internazionale “Città di Milano” nel 1987, e pubblicato diverse raccolte di poesie, tenuto conferenze e seminari di poesia. Nel corso degli anni l'interesse per il sapere si è approfondito nell'ambito delle filosofie orientali, non solo in senso teorico - da anni studia lo “shodō”, l'antica arte della calligrafia, con diversi maestri - nella convinzione che l'esperienza e la pratica del segno/scrittura affondino le radici in una vasta apertura verso ogni realtà spirituale.
“Sul levare” è la prima opera pubblicata con “Sillabe di Sale Editore”.
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PAROLE RACCOLTE
€ 14.00Riflessioni dopo la lettura di: PAROLE RACCOLTE di Giampaolo Giampaoli
Benché suddivisa in varie parti la silloge mantiene una chiara coerenza di intenti sia nella struttura compositiva che nella accurata ricerca linguistica.
Si intuisce quanto siano fondamentali per l’autore “mutamenti e illusioni” che fin dalla prima composizione si affacciano con il loro potenziale di rivelazione e aprono spazi di pensiero contro l’opacità del nulla.
Nella prima sezione si coagulano i temi e le implicazioni legate al fare poetico. “Perdere l’ispirazione”: il panico che prende l’autore inerme contro il vuoto bianco della pagina… la poesia intesa in chiave salvifica, “contro monotonie future”.
Ma è nella seconda parte che l’autore mette in scena la relazione con il mondo esterno, l’altro da sé: le rimembranze fuggitive “il tuo baluginante sorriso”, l’incanto della natura, il tempo che trascorre inesorabile, i rimpianti “ripercorro i giorni”. I temi si snodano e si dilatano intorno all’intensità di rapporti di vita vissuta e racchiudono tutta la loro accensione affettiva nei versi conclusivi delle composizioni.
Già il trascorrere del tempo era stato sfiorato nelle pagine precedenti, ma in questo ulteriore segmento acquista un più intenso coinvolgente potenziamento emotivo: i protagonisti dei testi sono ben identificati, definiti, “il tuo lungo dormiveglia”, “le tue parole di follia” i riferimenti sono palpabili e le personalità si stagliano con amorosa nettezza.
Proseguendo nella lettura incontriamo i due testi conclusivi in cui si addensano le aspirazioni, i disincanti e le incertezze in cui il poeta si dibatte.
Ma possiamo, tornando all’inizio, trovare già delineato in nuce ciò che spinge l’autore a esternare l’intima essenza della sua pulsione poetica: “liberare parole”. Non quelle compromesse dal banale scorrere quotidiano, ma le altre che sgorgano con intensità dal tentativo di offrire nuovi sensi all’esperienza: le parole della poesia.
Questa, pulsione incontenibile è il pungolo con cui Giampaoli si mette in gioco per assorbire, dalla linfa creativa che lo nutre, il proprio progetto comunicativo. Non basta… la singolarità sofferta dell’autore prende respiro e ritmo anche dalla meditazione sulla sua finitudine e avverte la presenza di quell’oltre inafferrabile che si mostra solo come riverbero dell’ignoto.
Carla Paolini
“Parole raccolte” è la storia di un cacciatore.
Come ogni cacciatore, Giampaoli porta con sé un ottimo segugio di razza. Il segugio di razza di questo libro di poesie si chiama mestizia.
Il cacciatore insieme a mestizia si muovono nei chiaroscuri della quotidianità per cercare lirica, ovvero parole per descrivere panorami quotidiani, sia interiori che esteriori, per descrivere stati d’animo.
E non ci sono oggetti che si sottraggono a questa ricerca. Perché la poesia è ovunque, per dirla come recita un bel verso, la realtà è “poesia immanente“. Oggetti comuni che si trasformano, come un letto, che smette di essere un oggetto di mobilio per diventare un “altare della sofferenza”.
Eppure, in questa frenetica ricerca del senso, si può rimanere a mani vuote “mio è il niente“, constata infatti l’autore in un lapidario epitaffio. Non sempre le parole infatti vengono raccolte, anzi, alle volte risultano “negate sprecate”.
Eppure è un rischio che il cacciatore intende correre, dal momento che c’è una forte coscienza di sé, coscienza fluida e irrefrenabile “la mente è prolissa”.
La mente è prolissa quanto la realtà è ossimorica, contraddittoria al punto che leggiamo di “pagine sporche” sullo “schermo freddo”.Uno schermo che ricorre più volte e che viene aggettivato spietatamente come “afono”.
Un’intera poesia è dedicata al mondo del virtuale, allo schermo e alla finestra che rappresenta. La poesia Nella rete è infatti uno scavo in quella che l’autore apostrofa come “rigida macchina”.
Schermo, dunque, oggetto che si presenta come un’anafora scomposta e sparsa in “Parole raccolte”.
Ampio spazio trovano gli ossimori, più concettuali che retorici. Proseguendo nella lettura si scopre che la vergogna può essere un piacere. O forse è il piacere ad essere una vergogna. Questo è uno dei segreti che il cacciatore si porta con sé insieme a mestizia, il suo segugio.
Eppure il cacciatore poeta non si dà pace, fiuta nell’aria guidato da quella che lui stesso chiama “presunta sensibilità“, ancora una volta spietato, ma questa volta con sé stesso. E l’aggettivo torna in un’anafora, concettuale anch’essa e non retorica, quando leggiamo “presunta bontà”.
Per poi arrivare ad una ammissione esistenziale, profonda e dura, nel verso che recita “mia natura corrotta”, senza risparmiare al lettore la sofferenza che costa mettere in versi una tale coscienza di sé. Ma potrebbe essere un inganno, perché l’autore scopre anche la carta della finzione poetica per fare poesia dell’artificio stesso: “mio mondo artefatto”.
Nonostante ciò, lo sforzo e le ferite non fermano la raccolta di parole, nell’estremo tentativo di “esistere ancora”.
Il cacciatore, come ogni cacciatore, non è solo. Viaggia con i suoi fantasmi, creature fatte di una eteroclita sostanza “la dolce sostanza mai assunta tra le solite mura”. In Parole raccolte i fantasmi si muovono in quella che il poeta chiama “la consistenza del vuoto”.
A volte il cacciatore guarda anche in direzione del cielo dove a parlargli è un Dio che nei versi è “il Dio conosciuto”.
Un Dio a cui l’autore pare urlare “Ti credo nella complessa totalità”.
Il verso più forte non è dedicato al trascendente, la lirica più spinta della raccolta si concretizza in un urlo pacifico “l’abbiamo mancato l’immenso papà”.
“Un canto navajo” suonato da un Kokopelli risuona tra i versi della poesia Cimitero, a restituire una serenità che altrove è minacciata dall’oscura “Persefone”. E non è un caso che l’ultimo aggettivo della racconta sia “inviolato”.
L’inviolabilità del silenzio, della notte. Quella notte evocata dall’esergo della Merini a inizio raccolta.
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