L’UOMO CHE HA SCONFITTO LA FOLLIA
€ 13.50
DETTAGLI PRODOTTO
- Esaurito
- 978-88-85454-52-0.
- POESIA.
- Marco Stentella
- 80
Formato: 120 x 200 – Brossura Fresata
“La salvezza sta
nel saper cambiare le parole”
Scrivere poesia non è facile, scrivere due versi buoni che “dicano” qualcosa forse è ancor più difficile per me, che non ho “studiato da poeta”.
Sin da adolescente ho sempre sentito l’urgenza di scrivere, per liberarmi dell’esistenza e, in tal modo, immergermi in essa.
Nel 2005 mi è stata diagnosticata la schizofrenia. Ero arrivato al punto più basso del mio disagio mentale. Per l’unica volta nella mia vita sono stato ricoverato in un reparto psichiatrico.
Là “ho sentito” veramente tutto il dolore della follia e mi sono detto che dalla follia dovevo andarmene: non volevo più essere “pazzo”.
Non so se si può tornare indietro dalla schizofrenia, ma a cominciare da allora ho cercato di ritrovare me stesso e, in poco tempo, non ho più avuto turbe mentali.
Da qui il titolo della raccolta, e l’augurio che mi faccio è che con essa io possa condividere le mie emozioni con chi mi legge.

Marco Stentella
Marco Stentella è nato ad Attigliano, in provincia di Terni, nel 1968 e. attualmente, vive e lavora a Torino.
Si è laureato in Filosofia all’Università di Perugia con una tesi in Estetica su Franz Kafka.
Ha pubblicato i microracconti in versi “La storia inventata” (Edizioni del Leone, 2004), la raccolta di novelle “Il santo che frequentava i bordelli” (Midgard Edizioni, 2006) e il saggio “Kafka e la scrittura di una nuova legge” (Galassia Arte Edizioni, 2012).
È l’autore del testo di “Un nuovo sole”, pezzo portante dell’ultimo disco dei Doracor, gruppo romano di progressive rock, “Passioni postmoderne di un musicista errante” (AMS Records, 2016).
Questa silloge è la sua prima pubblicazione con Sillabe di Sale Editore.
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€ 14.00Riflessioni dopo la lettura di: PAROLE RACCOLTE di Giampaolo Giampaoli
Benché suddivisa in varie parti la silloge mantiene una chiara coerenza di intenti sia nella struttura compositiva che nella accurata ricerca linguistica.
Si intuisce quanto siano fondamentali per l’autore “mutamenti e illusioni” che fin dalla prima composizione si affacciano con il loro potenziale di rivelazione e aprono spazi di pensiero contro l’opacità del nulla.
Nella prima sezione si coagulano i temi e le implicazioni legate al fare poetico. “Perdere l’ispirazione”: il panico che prende l’autore inerme contro il vuoto bianco della pagina… la poesia intesa in chiave salvifica, “contro monotonie future”.
Ma è nella seconda parte che l’autore mette in scena la relazione con il mondo esterno, l’altro da sé: le rimembranze fuggitive “il tuo baluginante sorriso”, l’incanto della natura, il tempo che trascorre inesorabile, i rimpianti “ripercorro i giorni”. I temi si snodano e si dilatano intorno all’intensità di rapporti di vita vissuta e racchiudono tutta la loro accensione affettiva nei versi conclusivi delle composizioni.
Già il trascorrere del tempo era stato sfiorato nelle pagine precedenti, ma in questo ulteriore segmento acquista un più intenso coinvolgente potenziamento emotivo: i protagonisti dei testi sono ben identificati, definiti, “il tuo lungo dormiveglia”, “le tue parole di follia” i riferimenti sono palpabili e le personalità si stagliano con amorosa nettezza.
Proseguendo nella lettura incontriamo i due testi conclusivi in cui si addensano le aspirazioni, i disincanti e le incertezze in cui il poeta si dibatte.
Ma possiamo, tornando all’inizio, trovare già delineato in nuce ciò che spinge l’autore a esternare l’intima essenza della sua pulsione poetica: “liberare parole”. Non quelle compromesse dal banale scorrere quotidiano, ma le altre che sgorgano con intensità dal tentativo di offrire nuovi sensi all’esperienza: le parole della poesia.
Questa, pulsione incontenibile è il pungolo con cui Giampaoli si mette in gioco per assorbire, dalla linfa creativa che lo nutre, il proprio progetto comunicativo. Non basta… la singolarità sofferta dell’autore prende respiro e ritmo anche dalla meditazione sulla sua finitudine e avverte la presenza di quell’oltre inafferrabile che si mostra solo come riverbero dell’ignoto.
Carla Paolini
“Parole raccolte” è la storia di un cacciatore.
Come ogni cacciatore, Giampaoli porta con sé un ottimo segugio di razza. Il segugio di razza di questo libro di poesie si chiama mestizia.
Il cacciatore insieme a mestizia si muovono nei chiaroscuri della quotidianità per cercare lirica, ovvero parole per descrivere panorami quotidiani, sia interiori che esteriori, per descrivere stati d’animo.
E non ci sono oggetti che si sottraggono a questa ricerca. Perché la poesia è ovunque, per dirla come recita un bel verso, la realtà è “poesia immanente“. Oggetti comuni che si trasformano, come un letto, che smette di essere un oggetto di mobilio per diventare un “altare della sofferenza”.
Eppure, in questa frenetica ricerca del senso, si può rimanere a mani vuote “mio è il niente“, constata infatti l’autore in un lapidario epitaffio. Non sempre le parole infatti vengono raccolte, anzi, alle volte risultano “negate sprecate”.
Eppure è un rischio che il cacciatore intende correre, dal momento che c’è una forte coscienza di sé, coscienza fluida e irrefrenabile “la mente è prolissa”.
La mente è prolissa quanto la realtà è ossimorica, contraddittoria al punto che leggiamo di “pagine sporche” sullo “schermo freddo”.Uno schermo che ricorre più volte e che viene aggettivato spietatamente come “afono”.
Un’intera poesia è dedicata al mondo del virtuale, allo schermo e alla finestra che rappresenta. La poesia Nella rete è infatti uno scavo in quella che l’autore apostrofa come “rigida macchina”.
Schermo, dunque, oggetto che si presenta come un’anafora scomposta e sparsa in “Parole raccolte”.
Ampio spazio trovano gli ossimori, più concettuali che retorici. Proseguendo nella lettura si scopre che la vergogna può essere un piacere. O forse è il piacere ad essere una vergogna. Questo è uno dei segreti che il cacciatore si porta con sé insieme a mestizia, il suo segugio.
Eppure il cacciatore poeta non si dà pace, fiuta nell’aria guidato da quella che lui stesso chiama “presunta sensibilità“, ancora una volta spietato, ma questa volta con sé stesso. E l’aggettivo torna in un’anafora, concettuale anch’essa e non retorica, quando leggiamo “presunta bontà”.
Per poi arrivare ad una ammissione esistenziale, profonda e dura, nel verso che recita “mia natura corrotta”, senza risparmiare al lettore la sofferenza che costa mettere in versi una tale coscienza di sé. Ma potrebbe essere un inganno, perché l’autore scopre anche la carta della finzione poetica per fare poesia dell’artificio stesso: “mio mondo artefatto”.
Nonostante ciò, lo sforzo e le ferite non fermano la raccolta di parole, nell’estremo tentativo di “esistere ancora”.
Il cacciatore, come ogni cacciatore, non è solo. Viaggia con i suoi fantasmi, creature fatte di una eteroclita sostanza “la dolce sostanza mai assunta tra le solite mura”. In Parole raccolte i fantasmi si muovono in quella che il poeta chiama “la consistenza del vuoto”.
A volte il cacciatore guarda anche in direzione del cielo dove a parlargli è un Dio che nei versi è “il Dio conosciuto”.
Un Dio a cui l’autore pare urlare “Ti credo nella complessa totalità”.
Il verso più forte non è dedicato al trascendente, la lirica più spinta della raccolta si concretizza in un urlo pacifico “l’abbiamo mancato l’immenso papà”.
“Un canto navajo” suonato da un Kokopelli risuona tra i versi della poesia Cimitero, a restituire una serenità che altrove è minacciata dall’oscura “Persefone”. E non è un caso che l’ultimo aggettivo della racconta sia “inviolato”.
L’inviolabilità del silenzio, della notte. Quella notte evocata dall’esergo della Merini a inizio raccolta.
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